Per ormai quasi 20 anni, il dibattito sui perimetri di innovazione nelle aziende si è concentrato sulla distinzione tra “Closed Innovation”, cioè confinata in un sistema chiuso, e “Open Innovation”, aperta e più collaborativa.
Ma nel panorama economico attuale, la rigida separazione tra questi due modelli è sempre più anacronistica.
L’innovazione, a prescindere dal nome che le si dà, è uno volano fondamentale per far sì che un’azienda possa crescere, svilupparsi, conquistare e mantenere fette di mercato in una vision a lungo termine. E lo diventa sempre più:
da una parte a causa della maggiore velocità di cambiamento portata dalla tecnologia, che oggi sembra essere al suo massimo storico con l’avanzata incalzante di tecnologie emergenti come l’AI.
Dall’altra, per l’evoluzione e la volatilità dei mercati con variabili socio-economiche particolarmente imprevedibili.
Quindi cosa significa “fare innovazione” in un’organizzazione nel 2025?
In un mondo che ci obbliga a una costante corsa contro la tecnologia, anche chi opera in mercati tradizionali deve adeguarsi velocemente a nuovi modelli di business e modalità, investire in ricerca e sviluppo, sviluppare prodotti innovativi.
Ma per riuscirci, non basta più farlo in modo chiuso: bisogna aprirsi verso l’esterno, vedere il mercato come un’estensione naturale delle proprie attività di innovazione.
Spesso non è chiaro cosa questo significhi, perché siamo abituati a pensare all’innovazione solo come ricerca e sviluppo, mentre invece c’è molto di più di questo, soprattutto oggi.
La vera sfida per le aziende non risiede più nella scelta tra un modello di innovazione completamente chiuso o aperto, Open Innovation versus Closed Innovation, ma piuttosto nella capacità di trovare un equilibrio strategico che integri efficacemente le proprie risorse con la ricchezza dell’ecosistema esterno.
Molte grandi aziende si trovano ancora in una fase di transizione, più vicina al modello dell’innovazione chiusa che ai principi dell’Open Innovation. Mentre tra le PMI, spesso non viene nemmeno affrontato il discorso.
Queste ultime hanno maggiori difficoltà a innovare e, quando ci provano, si ritrovano facilmente a seguire i classici schemi della Closed Innovation, perché associano l’innovazione alla ricerca e sviluppo, dando peso rilevante alla sola tecnologia.
Ma se associamo il concetto di innovazione unicamente a quella tecnologica, non riusciamo a scorgere il suo potenziale esteso, ossia quell’insieme di miglioramenti che consentono di evolvere lo status quo.
Confrontare i due modelli può aiutare a comprendere i benefici concreti dell’apertura, a motivare un cambiamento culturale e strategico verso approcci più collaborativi, ma soprattutto a capire come farlo, evidenziando come superare la resistenza interna e i bias cognitivi.
Inoltre capire cosa non è Open Innovation è fondamentale per evitare fraintendimenti e implementazioni superficiali, perché:
Fare Open Innovation è tutto questo, insieme, ma anche molto altro.
Infine, parlare dei modelli precedenti aiuta a prepararci al futuro dell’innovazione, a nuove modalità e sviluppi, perché la discussione sull’Open Innovation non è statica, come vedremo.
Il modello della Closed Innovation, o Innovazione Chiusa, ha rappresentato per lungo tempo l’approccio tradizionale all’innovazione per la maggior parte delle aziende.
Secondo questo modus operandi, l’innovazione si sviluppa solo ed esclusivamente all’interno dell’azienda, internalizzando conoscenze, competenze e know-how.
Questo modello tende a vedere l’innovazione solo per pochi e solo con determinati metodi e strumenti, restringendo il raggio d’azione a pochi all’interno dell’organizzazione, ovvero a chi si occupa di tecnologia, di R&D.
La Closed Innovation è infatti la strategia organizzativa che ha contraddistinto la crescita economica del secolo scorso, caratterizzata dalla preservazione dei confini aziendali rispetto ai player esterni. Questo ha storicamente limitato la possibilità di innovare davvero a poche grandi aziende, quelle che potevano investire capitali importanti per:
Alcuni moderni sostenitori della Closed Innovation ritengono che mantenere i processi di innovazione all’interno dell’azienda possa rendere l’innovazione stessa più dirompente e più facile da sviluppare.
Ma nel contesto attuale, caratterizzato da una rapida evoluzione tecnologica, da una maggiore mobilità dei talenti e da un’intensificazione della concorrenza, la Closed Innovation mostra limiti sempre più evidenti:
Quindi la Closed Innovation può essere vista, oltre che come una fase storica, come un punto di partenza per le aziende, primo gradino di crescita in un contesto che richiede sempre più integrazione tra risorse interne ed esterne per generare innovazione di successo.
L’Open Innovation, o Innovazione Aperta, è invece un modello organizzativo e di business che punta a estendere i processi legati all’innovazione oltre i confini aziendali, a vedere il mercato come un’estensione naturale del team di innovation.
Questo approccio strategico e culturale si basa sulla ricerca del potenziale per lo sviluppo attraverso la collaborazione e l’interazione con l’ambiente circostante, in particolare con altre aziende e PMI, startup, Università, Tech Park, incubatori, collaboratori esterni, condividendo idee, tecnologie e altre risorse.
Henry Chesbrough, l’economista che ha coniato il termine nel 2003 in un saggio intitolato “The era of Open Innovation“, definiva l’innovazione aperta come un paradigma secondo cui “le imprese possono e debbono fare ricorso a idee esterne, così come a quelle interne, e accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati, se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche”.
Questo approccio rappresentava una rottura dirompente rispetto al modello tradizionale di Closed Innovation: l’idea di aprire i confini aziendali per accogliere idee, competenze e tecnologie esterne sfidava le consolidate pratiche di ricerca e sviluppo interne.
Ma l’innovazione chiusa non era più sufficiente. Da un lato, le conoscenze e i talenti viaggiavano (e continuano a viaggiare) a una velocità sempre maggiore, grazie a Internet e alla facilità degli spostamenti, rendendo difficile trattenerli in azienda a lungo.
Dall’altro lato, i mercati dei capitali hanno iniziato a concentrarsi anche su aziende basate su modelli di business e approcci completamente nuovi e disruptive rispetto al passato.
Davanti a questi cambiamenti, Henry Chesbrough iniziò a riflettere sul fatto che la globalizzazione avrebbe reso sempre più costosi e rischiosi i processi di ricerca e sviluppo interni, anche a causa del ciclo di vita dei prodotti sempre più breve e della facilità di riprodurre le innovazioni tecnologiche in tempi brevi.
Le organizzazioni che basano la propria crescita sull’Open Innovation ottengono invece numerosi vantaggi.
Le grandi aziende possono:
Per le startup significa:
Le scuole e le Università possono entrare in circoli virtuosi che favoriscono la ricerca, l’offerta didattica e il placement di giovani talenti neodiplomati e neolaureati.
Infine le PMI possono trarre vantaggio dalle risorse e dal know-how di grandi aziende e partner di settore, tagliando gran parte dei costi di sviluppo interni e investendo sul licensing di tecnologie, software o brevetti.
In generale possono avvicinarsi all’innovazione, cosa che prima era impensabile per realtà di dimensioni ridotte.
L’innovazione “Open” in questi anni è passata da concetto teorico a vero e proprio mantra per alcune delle aziende di maggior successo al mondo, evolvendosi insieme alle caratteristiche che la identificano.
Secondo una definizione più recente dello stesso Chesbrough, infatti:
l’Open Innovation è un modello di innovazione distribuita che coinvolge afflussi e deflussi di conoscenza, gestiti in modo mirato tra i confini dell’organizzazione, fino a generare anche ‘spillover”
(Open innovation results, Chesbrough and Bogers, 2014).
Cosa significa nel concreto?
Che questo modello, alla luce degli sviluppi più recenti, implica un interscambio di conoscenza, in cui:
Ecco cosa intende Chesbrough con la capacità di generare “spillover”. Questo termine si riferisce al fenomeno che si verifica quando un’attività economica produce effetti positivi anche oltre gli ambiti per cui agisce, ed è proprio ciò che fa l’innovazione aperta.
Le collaborazioni e gli scambi di conoscenza nell’ambito dell’Open Innovation possono portare a benefici inaspettati e più ampi, che vanno al di là degli obiettivi specifici della collaborazione.
Tutto questo non è un processo casuale, ma richiede una gestione strategica e culturale per intercettare al meglio le opportunità del mercato e integrare le innovazioni esterne con il proprio modello di business.
D’altra parte la transizione verso un modello di innovazione più aperto non significa abbandonare completamente le risorse interne, ma piuttosto saperle integrare in modo sinergico con le competenze e le idee esterne.
L’obiettivo è creare un ecosistema dell’innovazione in cui la collaborazione e lo scambio di conoscenze generino valore per tutti gli attori coinvolti, in cui l’innovazione non è più vista come un processo isolato all’interno di un’organizzazione, ma come un fenomeno distribuito e collaborativo.
Come afferma Federico Frattini, è cruciale sviluppare il “know-where”, ovvero la capacità di interconnettersi con il mondo esterno per trovare le risorse necessarie, contrapposto al classico “know-how” di competenze distintive interne all’azienda che, in un mondo in rapida evoluzione, non è più sufficiente per rimanere competitivi.
Il “know-where” invece risiede nella capacità di un’organizzazione di identificare e accedere a fonti esterne di innovazione, stabilire partnership strategiche, per condividere rischi e costi, e partecipare a un ecosistema che facilita lo scambio di idee, la condivisione di best practice e l’individuazione di nuove tendenze e opportunità di mercato.
Attivare in modo efficace l’Open Innovation richiede un approccio strategico e sistematico, che va oltre la semplice adozione di singoli strumenti.
È fondamentale riconoscere il ruolo cruciale della “contaminazione”, spesso definita anche “cross pollination” o “cross fertilization”, come elemento abilitante di questo paradigma.
La “contaminazione” si riferisce allo scambio di idee, conoscenze e competenze tra diversi attori, sia interni che esterni all’azienda. Questo processo di interazione e ibridazione può portare a nuove intuizioni, soluzioni innovative e modelli di business inaspettati.
Ma quali modalità si possono utilizzare per stimolarla?
Le aziende possono adottare diverse metodologie e strumenti, spesso raggruppabili in approcci “Inbound” (portare innovazione esterna all’interno) e “Outbound” (portare innovazione interna all’esterno).
Numerose aziende hanno implementato con successo strategie di Open Innovation con una o più di queste modalità. Eni è un esempio italiano riconosciuto a livello internazionale per aver ripensato il proprio business attraverso l’Open Innovation, creando una divisione dedicata e stringendo centinaia di partnership con startup anche attraverso Eni Joule, l’incubatore d’impresa interno su cui da anni Seedble li supporta.
L’obiettivo finale è creare un ecosistema dell’innovazione in cui la collaborazione e lo scambio di conoscenze generino valore per tutti gli attori coinvolti, superare la “sindrome del non inventato qui” e sviluppare il “know-where”, e coltivare quella rete strategica di connessioni e partnership per accedere a competenze e risorse esterne, tra università, istituti di ricerca, startup, fornitori e concorrenti.
In conclusione, mettere in pratica l’Open Innovation richiede un cambio di mentalità e l’adozione di un approccio olistico che integri diverse strategie, strumenti e figure professionali.
L’obiettivo è creare un ecosistema dinamico in cui la collaborazione e lo scambio di conoscenze diventino la norma, permettendo all’azienda di accedere a un mondo di opportunità esterne e di generare valore condiviso, attraverso una serie di passaggi graduali ma essenziali.
Il passo zero è ovviamente definire una strategia chiara per l’innovazione, con obiettivi specifici: detto così sembra generico, ma ci viene in aiuto il lavoro di Tendayi Viki, autore di “The Corporate Startup” e consulente Lean Innovation, che suggerisce di definire una Innovation thesis che illustri i confini di azione dei progetti innovativi entro cui l’azienda si deve muovere per investire.
Può essere utile anche tenere un portfolio dei progetti innovativi seguiti, da suddividere in:
Ciascuna attività dovrà passare attraverso un framework in tre fasi per essere validata:
Esplorazione, Pilota, Commercializzazione (quest’ultima, ovviamente, solo per i progetti che superano le prime due).
In generale, ecco alcuni consigli che possiamo dare a chi voglia esplorare il mondo fuori dai confini dell’innovazione chiusa, affacciandosi all’Open innovation:
La sfida attuale non è scegliere tra un modello o l’altro, ma trovare un equilibrio dinamico e gestire una transizione intelligente verso un ecosistema di innovazione più ampio e collaborativo, integrando al meglio le proprie competenze interne con la ricchezza di idee e risorse esterne.
L’emergere di concetti come la Coalescence Innovation dimostra che il paradigma dell’innovazione è in continua evoluzione verso modelli sempre più aperti e partecipativi.
Comprendere le basi dell’Open Innovation, confrontandole con quella chiusa a cui siamo storicamente e culturalmente abituati, è quindi essenziale per interpretare e accogliere le tendenze future.